UN PO' DI STORIA

STORIA DEL CIOCCOLATO - 2

Abbiamo visto che il cioccolato era ben noto nei paesi d'origine.
Con gli abitanti dell'Antico Continente...però...non fu amore a prima vista!
Il primo europeo ad incontrare il " cibo degli Dei" fu Cristoforo Colombo durante il suo ultimo viaggio: assaggiò una tazza di xocolatl offerta dagli Atzechi il 30 luglio 1502. Il sapore troppo forte ed amaro risultò troppo distante dai sapori familiari tant'è che né il cacao né la sua bevanda furono portati e menzionati in Europa.




Fu merito di Hernan Cortes se il cacao arrivò in Europa.  Credendolo l'incarnazione del dio Quetzalcoalt, l'imperatore Montezuma offrì la bevanda in coppe d'oro e regalò moltissimi semi. Pur non gradendo la  bevanda, Cortes intuì che questi semi potevano avere un grosso potenziale economico e li potò in Europa.
Cortes e Montezuma



Riportò la ricetta tale e quale in Spagna, ed ovviamente, non fu apprezzata.
Furono i monaci dei conventi, da sempre depositari delle ricette di cucina ed esperti di erbe e spezie, a modificare la ricetta originale: eliminarono dapprima la farina di mais, sostituirono l'acqua con il latte, tolsero tutte le spezie tranne la vaniglia e dolcificarono prima con il miele e poi con lo zucchero.

Così modificata la cioccolata si diffuse rapidamente in tutte le corti europee rendendo indispensabili nuovi viaggi ed il commercio delle fave di cacao.






Per moltissimo tempo, dato l'elevato costo, la cioccolata rimase una golosità solo per le corti e per le classi più abbienti. E' in questo periodo che nasce una nuova figura, la cioccolataia, una cameriera che era adibita solo alla preparazione della nuova bevanda.


"La bella cioccolataia" di Jean Etienne Liotard 1744-45


Per servirla occorrevano servizi diversi da quelli utilizzati per il tè e per il caffè.
Ecco nascere le cioccolatiere in ceramica ed in argento ( entrambe con un'apertura al centro del coperchio per far uscire il maniaco del monilillo).























 Le tazze stesse erano completamente diverse: la tazzina era inserita in una specie di recinto attaccato al piattino. La funzione di questo "recinto" era quello di poter trasportare la  tazza piena di cioccolata senza il pericolo di rovesciare il prezioso liquido. Inoltre, dato che la cioccolata era servita sempre molto calda, una piccola parte era versata nel piattino in modo da farla raffreddare e poi bevuta direttamente dallo stesso.





La cioccolata più tardi si diffuse anche fuori dalle corti ed aprirono nelle principali città europee le Chocolate House, dove oltre a sorseggiare la bruna bevanda, ci si teneva aggiornati sugli eventi cittadini.





The White's Chocolate House di Londra

Per molto tempo si parlò di cioccolata, al femminile, riferendosi alla forma liquida. Per avere la forma solida, il cioccolato, dobbiamo attendere fino alla metà del XIX secolo, nel 1847 per opera dell'inglese Fry della Fry&Sons di Bristol che per primo realizzò il " cioccolato da mangiare".






 Il cioccolato al latte, invece, nacque nel 1875 dall'idea dello svizzero Daniel Peter ( dopo che fu "inventato" il latte in polvere da Henri Nestlè).




Daniel Peter










STORIA DEL CIOCCOLATO - 1

Cioccolato...la sola parola evoca una sorta di piacere ed ogni aspetto che lo riguarda assume una caratteristica speciale a partire dalla leggenda che riguarda la nascita della pianta del cacao.




Ai tempi in cui in Messico dominava Quetzacoalt, il dio fondatore della stirpe precolombiana, una bella principessa azteca, lasciata di guardia al tesoro dal suo sposo mentre questi era in guerra, fu assalita dai nemici i quali cercarono di costringerla a rivelare il  luogo del nascondiglio. 




La principessa preferì morire piuttosto che rivelare il segreto. Dal suo sangue nacque una pianta con i semi amari come le sue sofferenze, forti come la sua virtù e rossi come il suo sangue. Fu poi il dio Quetzacoalt a farne dono agli  uomini per ricordare il sacrificio della principessa.





Il nome, invece, deriva dalla parola azteca "xocolatl": questo termine secondo il missionario inglese del Seicento, Thomas Gage, sarebbe composto dalla parola " atle" che nell'antica lingua messicana vuol dire acqua e da "xoc" cioè il rumore che fa la bevanda mentre è sbattuta dentro i recipienti affinché formi una schiuma.




I caratteristici frutti del cacao, le cabosse, appesi direttamente sul tronco della pianta


L'attuale nome scientifico è "Theobroma" ed è stato dato dal naturalista Linneo nel 1753. Vuol dire " cibo degli dei": come dargli torto?


Linneo



Furono i Maya i primi a scoprire la bontà dei semi di cacao 600 anni prima di Cristo. Questa popolazione preparava una bevanda mescolando la polvere dei semi tostati di cacao, acqua e spezie. 















L'importanza di questa pianta fu tale che diventò una vera e propria moneta: con 4 semi di cacao si poteva comperare una zucca, con 10 un coniglio, con 12 una notte con una concubina e con 100 uno schiavo. Dato che i semi di cacao rappresentavano un valore, erano offerti come dono durante le cerimonie, per esempio quando un bambino passava alla vita adulta o durante le cerimonie religiose.






Cambio valuta  cacao-merce




Il cioccolato per queste popolazioni era una bevanda abbastanza densa e schiumosa, un'antenata della nostra cioccolata in tazza, ma ben diversa da come la conosciamo noi. I semi di cacao tostati erano frantumati con il metate, un particolare frantoio, mescolati in acqua con aggiunta di farina di mais, peperoncino piccante ed altre spezie. Il metate è ancora  utilizzato in Messico sia per il cacao che per macinare altri semi e spezie.
























L'intruglio era poi mescolato con forza con il "molinillo" un piccolo attrezzo che, oltre ad amalgamare fra di loro gli ingredienti, creava con il movimento una soffice schiuma.




Si racconta che l'imperatore Montezuma ne consumasse fino a 500 porzioni al giorno, in tazze d'oro, per poter essere sempre pronto e sveglio per tutte le sue attività a corte ( politiche ed amorose).





L'imperatore Montezuma mentre beve una tazza di cioccolato




I CIOCCOLATINI ITALIANI   CRI-CRI


In un gioco di associazioni se vi dico "cioccolatino" e Torino" la risposta di tutta sarà "gianduiotto", il il "givu" non è l'unico rappresentante a tenere alto il nome del cioccolato nel capoluogo piemontese.




Immagino che pochi di voi conoscano il CRI-CRI...ed è un vero peccato!
Nonostante gli ingredienti in comune ( nocciola tostata e cioccolato) questa bontà è completamente diversa dal più noto e serioso gianduiotto.








Il Cri-Cri è un cioccolatino anomalo: è una pralina che sembra una caramella o una golosa "matrioska"come mi piace definirla.




S'inizia con una cascata di piccolissime sfere di zucchero bianco che nasconde una spessa copertura di cioccolato che, a sua volta, racchiude all'interno una nocciola tostata: il risultato finale è una sfera di 3 cm di diametro. All'inizio la momperiglia ( e cioè il rivestimento esterno di piccole palline di zucchero) era variopinta.


La nocciola tostata è ricoperta di cioccolato attraverso un processo di bassinatura: la bassina è una speciale bacinella rotante di forma sferica, usata per la preparazione di confetti e praline. Il continuo movimento rotatorio permette di ricoprire perfettamente di cioccolato la nocciola.
La brassinatura



Sono praline che mettono subito allegria grazie anche alla carta paraffinata dai colori brillanti e dai bordi frangiati.






La nascita di questo cioccolatino risale alla fine dell'800 inizio del '900 a Torino, in piena Belle Epoque. Comparivano, soprattutto nel periodo compreso fra Natale e Carnevale, nei cataloghi delle più importanti aziende dolciarie torinesi come Caffarel e Talmone.






L'allegro nome invece, anche se sembra onomatopeico, deriva da una delicata storia d'amore. La giovane e bella Cristina, aiutante sarta, era corteggiata da un giovane studente universitario che affettuosamente la chiamava "Cri".
Lo studente era solito recarsi  in una pasticceria per acquistare le praline da regalare ad ogni appuntamento con la sua Cri ( come era abitudine una volta!)
Un giorno i giovani fissarono l'appuntamento proprio presso la pasticceria e fu così che la commessa del negozio sentì lo studente chiamare la sua bella con questo vezzeggiativo. Dopo quella volta, quando il ragazzo entrava in negozio la commessa con un sorriso gli chiedeva:"Cri?" indicando le praline ed il giovane rispondeva, sorridendo, allo stesso modo.
Su suggerimento della commessa, il pasticcere decise di chiamare  le sue praline Cri-Cri in omaggio ai due innamorati.




Come molti prodotti dell'industria dolciaria piemontese anche le praline Cri-Cri rischiarono di cadere nel dimenticatoio anche per via di un'ondata di sensibilità salutista che si era scatenata contro lo zucchero in generale ed i coloranti. Fortunatamente per noi  sono tornate alla ribalta grazie all'intuizione di alcuni cioccolatieri artigianali torinesi. Fra tutti la Pienmont ha fatto della Cri-Cri il suo  fiore all'occhiello. In questa seconda giovinezza,  l'unico cambiamento intervenuto è stata la mompariglia non più colorata, ma bianca.








Ultimamente le praline Cri-Cri hanno ottenuto il riconoscimento PAT e cioè Prodotto Agroalimentare Tradizionale della Regione Piemonte. Sono prodotti   le cui metodiche di lavorazione, conservazione e stagionatura sono consolidate nel tempo e sono praticate sul proprio territorio in maniera omogenea e secondo regole tradizionali per un periodo non inferiore ai venticinque anni.






Logo dei PAT


Passiamo alla degustazione. Gli ingredienti sono: nocciole, zucchero, cacao, burro di cacao ed aromi. Due possono essere gli approcci: "totale" e cioè mettendo in bocca tutta la pralina. In questo modo si sentirà la croccantezza della nocciola ed il sapore del cioccolato che si scioglie in bocca e che fa da contrasto  con il rumore della mompariglia con i denti. Oppure procedendo lentamente, per strati...prendendo la pralina fra le dita ed intaccando con i denti la mompariglia di zucchero mangiandola poco alla volta , mettere in bocca la pallina di cioccolato  farla sciogliere lentamente ed infine gustare la croccante nocciola.








Unica pecca: è molto difficile trovare queste praline fuori dai confini piemontesi. Motivo in più per recarsi a Torino e, una volta decisa la tecnica di degustazione, gustarsi una Cri-Cri immersi nella storica atmosfera dei suoi caffè liberty.









APICIO

Ogni emittente televisiva ha nel suo palinsesto uno o più programmi di cucina, gli scaffali delle librerie sono stracolmi di libri italiani e stranieri, le edicole pullulano di pubblicazioni di ricette. Ultimamente il web ha infranto qualsiasi confine, quindi per noi è normale parlare e scrivere di cucina.
L’origine di tutto questo interesse affonda le sue radici molto, molto lontano segnando il passaggio dal quotidiano impegno del cucinare per nutrirsi a una vera e propria forma di cultura culinaria.






Apicio


L’artefice fu Marco Gavio Apicio, un patrizio romano vissuto al tempo di Tiberio. Dedicò tutta la sua esistenza (patrimonio compreso) ai piaceri della vita, in particolare alla cucina.
Non solo fu il primo a scrivere di cucina, ma anche il primo a raggruppare le ricette in voga ai suoi tempi con il primo ricettario della storia, il DE RE COQUINARIA.
Questa raccolta, oltre ad essere uno spaccato dell’arte culinaria della Roma Imperiale è considerato ancor oggi un classico della letteratura gastronomica. S’ipotizza che solo 300 delle 468 ricette siano opera di Apicio (per alcune fonti non una sola persona, ma ben tre vissute in epoche diverse) mentre le restanti siano il risultato delle conoscenze in materia degli amanuensi che in epoca medioevale trascrissero l’opera. Leggendo Apicio notiamo la grande importanza che il patrizio romano assegnava alle salse, ai condimenti.








La più famosa era il GARUM: i Romani impazzivano per questa salsa anche se copriva ogni altro sapore e la utilizzavano dappertutto. Nonostante fosse costosissima si diffuse fra tutti i popoli conquistati diventando anche il segno dell’appartenenza all’Impero.






Un poco invitante...garum

Purtroppo non è stata scritta la ricetta precisa. La più fedele ricostruzione è per merito di Boris Johnson, attuale sindaco di Londra e grande studioso dell’antica Roma: pesci grassi con le loro interiora, messi al sole per alcuni mesi con l’aggiunta di sale e spezie, Si otteneva una salsa liquida o semi-liquida molto forte, che copriva ogni altro sapore.





Anfora romana con resti di garum



La popolarità del garum seguì parallelamente la decadenza dell’Impero.
Tuttavia ritroviamo nelle culture culinarie di molti paesi salse che derivano dalla micidiale salsa tanto elogiata da Apicio. Sono tutte quelle derivate dalla fermentazione di pesci: dalla Nam Pla tailandese alla nostra colatura di alici di Cetara (Presidio Slow Food) alle più generiche “fish sauce” giapponesi e vietnamite tanto utilizzate nel Regno Unito.































Anche in cucina…non c’è nulla di nuovo…sotto il sole!

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